Quando “incontri il destino” e all’improvviso tutto cambia nel vero senso della parola: ti ritrovi a fare cose che prima non avresti mai immaginato.
Nelle difficoltà si trova l’opportunità? A Oscar De Pellegrin è andata così.
Chi è? Presto detto: Oscar De Pellegrin ha rappresentato l’Italia ai Giochi Paralimpici a Barcellona nel 1992, ad Atlanta nel 1996, a Sydney nel 2000, ad Atene nel 2004, a Pechino nel 2008 e a Londra nel 2012, arrivando a 6 Paralimpiadi conquistando 2 ori e quattro bronzi.
Ospite al Premio Rocky Marciano 2018, ecco la sua storia…
Com’è entrato l’arco nella sua vita?
“L’arco e lo sport in generale, sono entrati nella mia vita in modo un po’ fortunoso: fino ai 21 anni infatti non avevo mai praticato nessuna attività sportiva, lavoravo in officina e all’azienda agricola dei miei genitori. Poi ho avuto l’incontro con il destino e un amico disabile mi ha spronato a ‘muovermi’, all’inizio rifiutavo in un momento successivo mi sono reso conto che è stata la mia fortuna. All’inizio era una sorta di sport-terapia perché finalmente uscivo di casa, mi relazionavo con gli altri; insomma era più che altro uno svago motivazionale. Non potevo pensare quello che in seguito sarebbe accaduto”.
Commendatore della Repubblica Italiana, portabandiera alla Paralimpadi di Londra 2012: si aspettava tutto questo?
“Sono stati momenti e riconoscimenti incredibili che hanno avuto alla base impegno e sacrifici. Un ringraziamento anche alle persone che mi sono state vicine, alle persone care con il cui aiuto ho potuto partecipare a 6 edizioni delle Paralimpiadi e vincere 6 medaglie. Londra poi è un contesto a sé, diverso: essere il portabandiera, colui cioè che rappresentava la nazione, si presentava alle interviste, ha dato all’appuntamento un fascino particolare, emozionate e ricco di responsabilità. Inoltre avevo già deciso che quelle sarebbero state le mie ultime gare in carriera; la mia testa sta già pensando a ridare qualcosa allo sport rimanendo nell’ambito della dirigenza sportiva”.
Quelle medaglie olimpiche: 2 ori e 4 bronzi, cosa rappresentano per lei?
“Ricordi piacevoli e indelebili che non sbiadiscono mai e che, a parole, non si riescono a spiegare e descrivere. Ho l’abitudine di lavorare per obiettivi: quando vincevo una gara, quella medaglia era già ‘vecchia’ perché ero già proiettato su un altro traguardo. Adesso è lo stesso, ho sempre nuove e diverse mete da raggiungere”.
Barcellona, Atlanta, Sidney, Londra: cosa hanno lasciato queste esperienze umanamente parlando?
“Ci sono tre punti saldi nella mia carriera sportiva: Barcellona perché è stata la prima volta, tutto era nuovo, in un mondo non tuo ma sei lì perché hai delle qualità. Mi consideravo un atleta outsider che ha apprezzato l’evento e la sua organizzazione; il villaggio olimpico dove convivi con culture ed etnie diverse, ti fai degli amici e poi la gara dove nessuno conosce nessuno ma poi ci si ritrova nel villaggio olimpico. Non dimenticherò mai Barcellona e il calore degli spagnoli. Sidney è importante perché voltai pagina: decisi di gareggiare nel tiro con l’arco, una disciplina che mi ha sempre affascinato perché non esistono differenze tra atleti al punto che un paralimpico può partecipare anche alle Olimpiadi. Sicuramente questo elemento mi h spinto a fare un salto verso qualcosa che non conoscevo e si è rivelata la scelta giusta. Infine Londra e la grande forza di cui parlavo prima”.
“Lo sport è di tutti, lo sport è per tutti”. Quanto, secondo lei, l’Italia crede davvero in questi concetti?
“ Credo tanto. Da atleta prima e da dirigente ora, sento di aver contribuito a questo passaggio. Fino a Pechino 2008, le Paralimpiadi avevano poco valore e poca considerazione, da Londra 2012 è scattato qualcosa di diverso: i giornalisti sono più interessati, c’è più attenzione anche nelle parole: non siamo disabili ma atleti paralimpici. E’ così che un paese cresce culturalmente attraverso lo sport. Ovvio che c’è ancora molto da lavorare”.
Ha ancora sogni nel cassetto?
“Bisogna sempre avere dei sogni nella vita. Io proverò a mettere sempre l’atleta al centro dello sport perché senza di loro lo sport non esisterebbe, punto a migliorarmi sempre e a non perdere la sensibilità verso quello che ho conquistato nell’agonismo per poi riversarlo nel mio lavoro attuale”.
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