Grazie alla preziosa collaborazione di Alessandra Petrucci, psicologa dello sport
Il gioco del calcio favorisce lo sviluppo psicofisico ed è un importante mezzo educativo che consente al bambino di acquisire nuove competenze, diventare autonomo e consapevole delle proprie capacità, mettersi in gioco, rispettare le regole, collaborare con gli altri; tutto ciò a patto che il ragazzo possa vivere serenamente la propria esperienza ed esprimersi con spontaneità e creatività.
Durante gli allenamenti o la partita si colgono spesso i commenti di alcuni genitori che esortano i propri figli non tanto a fare del proprio meglio, quanto a fare meglio degli altri o a vincere a tutti i costi. D’altro canto anche i modelli culturali avanzati dai mass media rischiano di generare l’illusione che il fine ultimo dell’attività sportiva debba essere quello di diventare campioni.
Uno stile educativo improntato su una cultura della vittoria, in un’età in cui il bambino ha bisogno, nonché diritto, di giocare, muoversi e divertirsi, è controproducente. Il bambino non è un adulto “in miniatura”; responsabilità e pressioni eccessive, un agonismo esasperato fin da giovanissimi possono, nel lungo termine, nuocergli. La storia del calcio è piena di giovani promesse “bruciate” nel giro di qualche anno. Carichi di lavoro eccessivi, aspettative elevate ed irrealistiche da parte di terzi, corrispondenti delusioni e mancanza di divertimento sono tra i principali motivi di drop out sportivo.
E’ fondamentale per un genitore valorizzare i talenti e le doti dei figli, distinguendoli dai propri. Può accadere che i genitori si rivedano nei bambini e proiettino su di loro quelle che sono state le loro difficoltà, con commenti quali: “non è portato come me” o “per quella cosa ha ripreso dal papà o dalla mamma”. Oppure involontariamente il genitore può rischiare di trasmettere la propria ansia al figlio, quando gli raccomanda ad esempio di non agitarsi o di non avere paura. Affinché il bambino possa credere in sé, è importante che le figure affettive di riferimento credano in lui. Una buona autostima viene nutrita dalla sicurezza di essere amato indipendentemente da quello che sa o che fa.
I figli non possono essere un mezzo per soddisfare la propria ambizione sportiva. Alcuni genitori sono ex atleti ed hanno piacere che il ragazzo pratichi il loro stesso sport; in qualche caso non sono neppure i bambini a poter decidere liberamente a quale attività sportiva partecipare. Gli adulti dovrebbero essere consapevoli dei propri desideri e delle proprie motivazioni, che sono individuali e possono non coincidere con quelle del giovane atleta.
L’esempio dei genitori è determinante: il loro modo di reagire a vittorie e sconfitte può rappresentare per il bambino un modello positivo di autocontrollo e gestione della frustrazione, nonché di etica sportiva. Il genitore che vuole rassicurare il figlio argomentando che non ha alcuna importanza se quel passaggio, quel tiro è andato male, deve esserne convinto. Dire “non fa niente se non avete vinto”, con la faccia desolata, rende le parole difficilmente convincenti. Quando c’è discordanza tra ciò che l’adulto comunica verbalmente e il suo comportamento, quest’ultimo diviene predominante.
Il bambino, sul campo da gioco, deve avere la possibilità di sbagliare. Il “fallimento” fa parte del processo di apprendimento, è necessario se vuole imparare qualcosa di nuovo o quando deve perfezionare qualche abilità. Considerare gli errori come parte del percorso vuol dire seminare in lui quella sicurezza che gli consentirà di avere il coraggio di provare e riprovare per esprimere al meglio le proprie potenzialità.
Lo sport giovanile è un’età feconda per l’apprendimento, caratterizzata da fantasia, passione, creatività ed entusiasmo; il messaggio che dovrebbe passare forte e chiaro al giovane sportivo è che non ha importanza il risultato, ma ciò che conta è che si diverta e che cerchi di fare del proprio meglio. Ciò che un genitore attento può fare per il figlio è mostrare fiducia, offrire sostegno, dare feedback positivi sull’impegno, sui miglioramenti, soprattutto nel post prestazione; non paragonarlo ad altri ragazzi o all’altra squadra, non spronare il bambino a vincere, ma a dare il meglio di sé esprimendo le proprie potenzialità, senza obbligarlo a dover diventare un campione, ma senza nemmeno privarlo della possibilità di sognare.
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